(Articolo di Carlo Piovan e Saverio D'Eredità)
Agli uomini piace parlare della guerra al fine di poter allontanare il momento dell'entrata in battaglia.
Ritroviamo questo insegnamento nelle pagine dell'Iliade di Omero che oggi ci appaiono quanto mai attuali. Gli uomini (intesi come genere maschile) di fronte a un problema che li ha spaventati e che li ha trovati spiazzati, hanno scelto di riesumare le parole della guerra come veicolo comunicativo con la comunità (italiana, nel nostro caso).
Perchè è sicuramente più facile segnare una linea per terra e dividersi in due fronti che valutare la complessità di un evento. Perchè parlare della guerra, come ci ha insegnato il poeta greco, rimanda il momento della battaglia in cui è noto che senza una strategia non si vince.
Chissà che paradigmi sarebbero stati usati per affrontare il problema sanitario, se la presenza femminile nelle varie task force governative, invece di essere in netta minoranza, fosse stata perlomeno pari agli uomini. Si sarebbe parlato ancora di guerra?
Inevitabilmente e quasi quale logica conseguenza, alla narrazione "bellica" sulla guerra contro il virus, si sta sostituendo quella della "ricostruzione". Ci sembra superfluo rimarcare come i parallelismi (anche a detta di chi quella guerra l'aveva vissuta) siano scorretti per l'incomparabilità delle situazioni, a maggior ragione bisognerà ora diffidare dalla retorica del "post" dove finalmente si realizzerà questo "non sarà più come prima". Normalmente cerchiamo di stare alla larga da luoghi comuni e frasi fatte: anzi proporremmo come pegno e mozione d'ordine che chiunque sostenga il "non sarà più come prima" formuli una proposta seria al riguardo. Possibilmente non una brutta copia del mondo precedente.
Appare infatti evidente come già da qualche giorno si stia banalmente cercando di riconvertire la (ora vituperata) normalità di un tempo ad un mondo dominato dalla paura del virus, senza che questo comporti un vero cambio di paradigma. Giorno dopo giorno ci coglie sempre più la convinzione che stiamo sfuggendo al nocciolo della questione.
Si ritorna quindi a parlare della frequentazione della montagna e dei suoi luoghi simbolo, come i rifugi, non nei termini di un desiderio di riconquistare più ampi spazi di libertà, quanto piuttosto di un problema da risolvere.
Pare già un paradosso di per sè, considerare un problema la frequentazione dei luoghi "naturalmente distanziati", ma va da sè che ai paradossi dovremo abituarci.
Tuttavia sembra che questo "problema" sia più legato all'immagine che abbiamo delle montagne o meglio del modo in cui si pretende di fruirle (o valorizzarle?).
Spesso chi parla della montagna al grande pubblico o ne propone modelli di sviluppo economico, lo fa con occhi e sensibilità da fruitori di parchi pubblici. Si insiste nel riproporre una visione "urbana" della montagna dove ritrovare esattamente i piaceri della vita quotidiana con quel tocco di esotico e selvatico che fa tanto chic. Un tocco di silicone, diciamo. Il tutto inserito in una sorta di nuova retorica che ha coniato un termine tanto alla moda quanto a ben vedere piuttosto vuoto come quello di "Terre Alte": possiamo chiamarle montagne senza che questo venga percepito come "vecchio"? L'impressione è che spesso trovare una nuova etichetta basti di per sè a generare un cambiamento.
Ma è davvero così? O non abbiamo forse falsato l'immagine della montagna cercando di renderla il più possibile "a nostra somiglianza"? La questione dei rifugi nel "mondo dopo", mondo in cui sarà facile trovarsi soffocati dai protocolli, ordinanze e codici vari, si appresta ad essere un interessante indicatore della montagna che vorremmo vivere.
Ma non c'è grande crisi che non offra grandi occasioni.
Invece di lambiccarsi la testa sul se e dove posizionare le tende, magari prima ottenendo una valutazione d'impatto ambientale e un documento sottoscritto dal Responsabile della Sicurezza, come distanziare le persone o fare tamponi sui sentieri, non sarebbe forse il momento di ripensare la montagna non più come prodotto ma nella sua soggettività?
Solo poche decine di anni fa, se arrivavi tardi o non c'era posto in rifugio ti facevano accomodare su una panca (o anche sotto...) giusto dopo aver spazzato le briciole della cena. Nessuno si sognava di avere un tris di primi o si lamentava del pane duro. Trangugiavi quel che c'era, ringraziavi di essere al caldo e magari ti intrattenevi in due chiacchiere con il gestore. Quanta storia alpinistica, quanti aneddoti, quante cose uniche sono accadute tra quelle travi rosicchiate dai tarli?
Oggi fantastichiamo di un mondo spartano, fuori dalla "comfort zone" come ci piace dire, ma in fin dei conti non lo vorremmo troppo scomodo. Ma non è (era?) forse la montagna quel luogo dove cercavamo di affrancarci da costrizioni e codici comportamentali "urbani" per ritrovare il senso della condivisione, della comunità e di una scomodità che si faceva esperienza di vita vissuta? Troppo spesso si è abusato del concetto di "autenticità" in termini di marketing, svuotandolo del suo significato.
Ciò non vuol dire negare l'importanza del turismo alpino, che vale la quasi totalità dell'economia delle zone montane, ma al contrario riportarlo al suo posto.
Da luoghi dell'isolamento a scenografie periurbane
Senza sconfinare nei territori di competenza dell'antropologia culturale o nella letteratura del viaggio romantico ma rimanendo nel più limitato periodo storico della pratica dell'alpinismo, la vasta letteratura ci ha sempre parlato della montagna come un luogo isolato, scarsamente antropizzato oltre gli alpeggi, in cui i pochi presidi dell'uomo erano finalizzati all'offrire un servizio di emergenza, per chi deliberatamente sceglieva di attraversare quei luoghi lungo una cresta, un sentiero, una parete. Le regole erano poche e il più delle volte non scritte, l'azione e le relazioni tra persone ruotavano attorno a tre concetti: Responsabilità (delle proprie azioni), Solidarietà (in caso di bisogno), Essenzialità (del servizio). Chi decideva di salire, di spingersi verso il quanto mai illusorio "limite delle capacità umane" lo faceva in coscienza ed in piena autosufficienza, i supporti che poteva ricevere in quei luoghi erano limitati a far fronte a situazioni di emergenza. La preparazione richiesta per salire, non era solo squisitamente fisica, ma anche cognitiva e culturale. La conoscenza della geografia e dei fattori ambientali assumeva lo stesso valore di essere fisicamente allenati o di aver elaborato la corretta strategia per portare a compimento l'ascensione.
Ma a partire dagli anni Settanta la cultura economica che permeava nella società ha rivolto il suo sguardo verso le valli, gli alpeggi e le cime più alte, le città avevano travalicato le mura medievali, l'urbano si mescolava con il rurale, dando vita ad aree metropolitane, "villettopoli", città diffuse, città regioni. L'uso giornaliero del territorio si allargava fino a trasformare gli antichi luoghi dell'isolamento a luoghi dello svago e del tempo libero, dei grandi parchi urbani attrezzati per lo sport.
Il cambio di paradigma nella percezione di questi luoghi apre le porte ad una gestione improntata sullo sfruttamento dei vantaggi economici che ne derivavano, dal confinamento a pochi lembi di territorio di aree destinate alla conservazione degli habitat naturali e ad una assoluta decontestualizzazione dell'ecosistema umano da quello naturale. Il cambio di approccio porta con sè anche il cambio nelle abitudini e nell'uso.
La montagna non è più lo spazio dove i suoi frequentatori cercano o sono coscienti di trovare isolamento ed essenzialità, ma diventa una scenografia d'eccezione dove praticare i medesimi sport nati in ambito urbano per i quali si chiedono e ricercano gli stessi comfort ed ai quali utenti non sono stati negati, cogliendone il grande potenziale economico e trasformando sensibilmente paesaggi, usi e popolazioni delle montagne. Le dinamiche, sinteticamente descritte, hanno stimolato molto lo studio di possibili modelli di sviluppo e gestione che cercassero di governare la complessità del processo, senza necessariamente negarlo. Molto e con ottimi risultati si è prodotto negli ambienti accademici, poche le buone pratiche messe in atto sul territorio (tendenzialmente sbilanciate verso il profitto economico), ancor più blande le politiche di educazione e responsabilizzazione dei "nuovi" utenti di questi luoghi. Abbiamo assistito anche qui al deleterio processo di deresponsabilizzazione dei propri comportamenti, invocando sempre più interventi esterni finalizzati alla sicurezza e al comfort, in luoghi in cui la sicurezza e il comfort sono antitetici per definizione. Siamo caduti nell'equivoco di considerare l'alpinismo (nella sua accezione più vasta) alla stregua di un sport da praticare in una struttura urbana. L'alpinismo è una pratica complessa, che è fatta anche di una componente sportiva, ma non solo.
Siamo rimasti intrappolati nel tranello dell'ego, di quella smisurata voglia di doverci misurare con gli altri, di emergere, di acquisire valore sociale, di poter pensare di sostenerci economicamente con delle prestazioni sportive. L'atleta, anche nelle specialità che lo vedono gareggiare da solo, ha una squadra di persone che lavora per lui. A partire dall'operaio che prepara il "terreno" sul quale potrà gareggiare e misurarsi a pari condizioni con gli altri. L'atleta non è solo.
L'alpinista è diverso, abbandona deliberatamente la squadra e l'omogeneità del terreno. Talvolta ricerca le condizioni peggiori ed anche se legato da un vincolo sentimentale prima che fisico, al compagno di cordata, è da solo nel momento dell'azione portando con sè solo l'essenziale.
L'alpinista non è migliore dell'atleta o dello sportivo e viceversa. Non hanno doti morali differenti nella vita di tutti i giorni, sono semplicemente testimoni di attività diverse, che influenzano in modo determinante il contesto in cui si svolgono.
Oggi di fronte ad un divieto netto e miope dell'attività sportiva, il tema della possibilità di riprendere la pratica alpinistica riemerge di fronte ai temi legati allo sport e alle attività economiche che ruotano attorno ad esso, con tutte le conseguenze dei casi. Nessuno sembra capace di riconoscere la vera essenza di questa pratica e la relaziona all'emergenza epidemiologica. Ritorno alle origini o all'essenza della pratica?
Il pensiero che abbiamo maturato in anni di frequentazione della montagna, di evoluzione della riflessione e che in questo periodo di quarantena abbiamo provato a far decantare, ci porta a porci la domanda se non sia giunto il momento di tornare a chiamare le cose con il proprio nome.
Non stiamo invocando un romantico ritorno ad una Arcadia perduta, siamo onesti, le previsioni meteo affidabili, i friends di ultima generazione, i piumini leggeri e caldi, le foto delle pareti in HD, fanno comodo a tutti e non sono certo da annoverare come opera del demonio.
Altresì ora è necessario riaffermare pubblicamente con forza, che non abbiamo bisogno della spremuta fresca nei rifugi, degli impianti di risalita, del 5G in ogni remoto angolo di Alpi e Appennini. La nostra è una pratica cosciente dei rischi e cosciente dell'isolamento, consapevole che i primi soccorsi devono arrivare da noi stessi per la nostra cordata e per chi ci sta intorno. Responsabile sull'impatto che abbiamo sul territorio, sapendo che le uniche tracce che lasciamo del nostro passaggio sono dei piccoli cumuli di pietre, qualche pezzo di acciaio dolce in parete o qualche contenuto elemento organico. Tutto il resto rientra con noi a valle. Pertanto, riaprire all'attività alpinistica vuol dire aprire ad un isolamento volontario, che aiuterà poco le economie di valle, ma che altrettanto poco può contribuire alla diffusione del virus.
Quando i margini di sicurezza sanitaria saranno ritenuti tali, parteciperemo anche noi, nuovamente, alle gare di trail o di scialpinismo. Lo faremo coscienti che stiamo facendo altro dall'alpinismo. Felici di condividere con altre persone queste esperienze, speranzosi che il loro indotto economico rientri in una programmazione e pianificazione dei territori alpini che non contrappongano economia ed ecologia, uomo a natura, ma che si approccino alla gestione attraverso quei paradigmi, oggi propri della disciplina dell'ecologia del paesaggio, in cui l'ambiente antropico è solo una tessera di un mosaico più ampio e complesso.
Ripensiamo, sì, anche ai rifugi. Ma sul serio.
Considerandoli parte integrante dell'ambiente alpino e della cultura alpinistica, come tasselli di un'economia di montagna che dovrà essere tutelata e sostenuta come tanti altri settori. Ripensiamoli nella loro funzione originaria. Soprattutto chi li frequenta, non importa se per turismo o come base per una scalata. Recuperando la sana abitudine di adattarsi alle circostanze o saper rinunciare, una volta ogni tanto, cambiando meta.
Per gli alberghi ci sono i fondovalle.
Cambiamento reale o giuridico?
L'impressione è che, tanto per la montagna quanto per i diversi ambiti della società, si stia tentando in maniera sconclusionata di adattare una visione pre-costruita ai nuovi paradigmi del Covid-19. Lasciano quantomeno perplessi certi tentativi di regolamentare il come andare in montagna. Non tanto per le necessarie precauzioni che sappiamo già saranno dovute nei prossimi mesi (dobbiamo ripeterle?), quanto per questa costante ansia di normare qualunque aspetto della vita, oltre il ragionevole e contro ogni ratio di prevenzione. Ciò ottiene effetti spesso opposti, ovvero generare confusione, arbitrarietà e soprattutto incide poco o nulla sul reale contenimento dell'epidemia. Ciò si innesta ad una tendenza già in atto e che sta pericolosamente strisciando tra le pieghe della narrazione dominante, nella percezione della attività in ambiente come costo sociale, nel voler sempre e a tutti i costi effettuare una valutazione del rischio oggettiva così da permettere l'identificazione di un responsabile (o colpevole?), ovvero il contrario del concetto di responsabilizzazione che sta alla base dell'alpinismo.
E, ancor più in profondità, del concetto di libertà. La "società securitaria" è oggi il vero rischio, un miscuglio di logiche di mercato applicate all'ambiente naturale, tecnicismo esasperato, e regolamentazione abnorme. Che riduce progressivamente gli spazi di autonomia, delegando ad un "altro" valutazioni e capacità decisionali. Non si tratta di predicare anarchismi senza senso o individualismi arbitrari. Si tratta di preservare uno spazio non come fosse una riserva indiana, ma come espressione di sè stessi in quanto parte di una comunità di individui. Le soluzioni, talvolta, stanno nella natura stessa delle cose. Torniamo a chiamarle montagne, torniamo a viverle come montagne.
Una nuova normalità o una normalità migliore?
Ognuno di noi ha vissuto diversamente la quarantena imposta nella prima parte del 2020. Si è trattato di un'esperienza totalmente inedita per una società abituata a disporre della propria libertà (quasi) illimitatamente e altrettanto abituata a consumare l'ambiente naturale a propria discrezione. La pausa forzata, la sospensione di alcuni dei diritti cardine della società, la paura generata da un pericolo (apparentemente) incontrollabile e alimentata da un uso spesso distorto dell'informazione, ha generato reazioni diverse e soprattutto ha fatto emergere i limiti di una società in fin dei conti così fragile.
Questo articolo è stato scritto nel mese di Aprile 2020, quando ancora ci si interrogava sui contorni di un futuro incerto, dominato dalla paura del virus e minato nelle certezze della società consumistica. Non di meno, si è trattato di un periodo estremamente favorevole per portare avanti delle riflessioni che, gioco forza, vengono spesso relegate ai margini della quotidianità. Ne riflette perciò i dubbi, le incertezze, lo spaesamento di quei giorni.
Con il passare delle settimane, si sono delineate alcune reazioni tipiche, oscillanti da una visioni "distopica" caratterizzata da una "nuova" (e per niente allettante) normalità fatta di limitazioni della libertà, rigorose misure di sicurezza e di uno stato di perenne emergenza con tutte le rinunce, anche estremamente pericolose per la tenuta democratica di un Paese, che questo comporta.
Dall'altra, quasi per converso, una spasmodica ansia di rimozione dell'esperienza stessa della quarantena e del distanziamento sociale. Quasi che fosse una parentesi chiudere presto per tornare ad una normalità bulimica ed edonista. Abbiamo riflettuto a lungo su come questa esperienza potesse cambiare la percezione che la "comunità" delle persone che frequenta la montagna e più in generale gli spazi naturali abbia della propria libertà.
Il "caso" nato attorno al tema dei rifugi ci ha fatto riflettere più che per il problema in sè, quanto per la visione che pare sia consolidata della montagna e dell'ambiente naturale quale parco giochi urbano, da costruire e fruire "a immagine e somiglianza" di chi la frequenta. Non è certo un fenomeno nuovo, ne siamo consapevoli. Ma il fatto che la qualità del dibattito sulla montagna si sia concentrato più sui "servizi" che un rifugio dovrebbe offrire piuttosto che alla sua funzione di presidio, accoglienza e fulcro delle attività in quota lascia molto da pensare.
Il lungo periodo di chiusura avrebbe, a nostro avviso, dovuto offrire l'occasione di un ripensamento complessivo, sia sull'impatto delle zioni umane sull'ecosistema (alla radice dell'emergenza epidemiologica) sia per le ricadute sulle economie di montagna.
Di fronte alla prevedibile crisi del turismo alpino si dovrebbe cogliere lo spunto per ripensare i modelli di sviluppo, non per un utopico ritorno alle origini quanto per renderli effettivamente sostenibili o come si usa dire oggi "resilienti".
Si fa avanti invece l'idea di una rimozione rapida della traumatica esperienza del distanziamento e del blocco delle attività. I ripensamenti sono stati provvisori e superficiali. Non si assiste ad un reale cambio di paradigma. La stessa messa a repentaglio della libertà di movimento e lo svilimento della attività sportive (per un certo periodo addirittura demonizzate, ricordiamolo!) avrebbero dovuto suonare come dei campanelli di allarme, la cartina al tornasole di una società che considera l'ambiente uno spazio da sfruttare, l'attività sportiva un "vizio", la libertà d'azione e la responsabilità individuale un'opzione piuttosto che il fondamento di una società aperta.
Non c'è più molto tempo. Dai temi ambientali a quelli economici, dalle tensioni sociali alle visibili crepe nella società democratica, urge una riflessione ad ampio raggio, aperta e non ideologica.
Soprattutto tutti noi, "comunità alpinistica" e non, abbiamo il dovere di riappropriarci degli spazi culturali, dei luoghi in cui matura un pensiero o una visione. Anche, semplicemente, adottando comportamenti consapevoli. Da una sentiero ad una falesia. Come alpinisti della domenica, escursionisti, "runners" o turisti.
Non importa che cosa facciamo, l'importante è come lo facciamo.
Con la consapevolezza che nulla è per sempre. Tranne le montagne, loro nonostante tutto (processi geologici a parte) ci saranno sempre.
Se solo reimpareremo a chiamarle con il loro nome.
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