martedì 30 giugno 2020

Perla del mese - Giugno

Sulle cime più alte ci si rende conto che la neve, il cielo e l’oro hanno lo stesso valore.

[Boris Vian]


venerdì 26 giugno 2020

Sella del Cournour

Bizzarra, la lingua tedesca.
Gli amici d'oltralpe, discendenti delle alemanne lande, hanno delle parole, spesso molto lunghe e articolate, che in altre lingue si esprimono soltanto tramite un'intero concetto.
Non vorrei soffermarmi su pregevoli capolavori come ad esempio "Handschuhschneeballwerfer" ma mi accontento di trarre ispirazione da Fernweh.


"Fernweh", traducibile come "nostalgia di un luogo lontano", più spesso utilizzata per descrivere il desiderio di viaggiare e di esplorare luoghi remoti.
Durante questo periodo così vincolante per il movimento e le passeggiate, ho vissuto una sensazione che non saprei descrivere altrimenti, se non utilizzando in prestito questo termine tedesco. Desideravo caricare lo zaino e mettermi in viaggio, recuperare quella vitale voglia di attraversare prati e di cadenzare il respiro col passo, ritornare a dover schermare gli occhi per proteggerli da riverbero di un torrente o di un nevaio.
Ma il meteo avverso, le comunicazioni confuse ai notiziari, il timore di dover pesare sul lavoro degli ospedali in caso di incidente, l'incertezza di una quotidianità per me così anomala e carica di dubbi...mi faceva rinunciare. Allora desistevo, ritornavo a sbirciare non senza una punta d'invidia le foto di chi invece era riuscito ad evadere dalla città verso pascoli, alpeggi e ruscelli d'alta quota, in uno stato di immobilità che gradualmente e senza accorgermene si trasformava da quiete a stagnazione.

La Fernweh è come una molla, una molla potente che se compressa è in grado di rilanciarti con una spinta verso la soddisfazione di un bisogno, ancor meglio verso l'esaudimento di un desiderio, ma se tenuta a lungo in pressione, senza possibilità di rilasciare l'energia accumulata, allora può perdere il suo potenziale fino a snervarsi oppure nel peggiore dei casi può danneggiare il delicato meccanismo di cui fa parte. Avete mai provato a far girare un meccanismo danneggiato? Le ruote dentate si incastrano con degli strattoni, le bielle stridono, le filettature saltano rilasciando ruggine dappertutto.

Ecco come mi sentivo lungo il sentiero che porta alla Sella del Cournour: un automa rimasto a lungo privo di manutenzione, con gli ingranaggi compromessi, che tenta di rimettersi in moto.
Spero vivamente possiate comprendere che non si tratta solo del post di un individuo fuori allenamento che descrive un sentiero EE.
Certo, in salita arrancavo più del previsto e in discesa sentivo la muscolatura delle gambe dolorante, ma non parlo soltanto della fatica nel recuperare un accettabile livello di forma fisica.
Parlo dello stato emotivo con il quale ho ripensato alla camminata nei giorni successivi. Ne avevo un ricordo negativo pur non potendo di fatto associare al percorso nulla di effettivamente negativo.
La Fernweh aveva compromesso il mio modo di vivere quel trekking? La molla aveva guastato il meccanismo?


Solo ora, mentre scrivo, comprendo cosa sia andato storto e perchè non sia riuscito a vivere la camminata con il consueto spirito. La spiegazione sta nel titolo: la sella non era la meta finale. Avevo in animo di raggiungere la punta ed è stato forse questo ad aver sviato tutte le prospettive.
Mi sono concentrato unicamente sull'ambita destinazione finale perdendo di vista quello che in tanti anni di escursioni era divenuta una routine, ossia l'abituale e piacevole osservazione del percorso nella sua interezza e nella sua totalità.

Avevo perso di vista quello che Terzani ed altri pregevoli autori ripetono spesso nelle loro opere: "Il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l'arrivare".
Se il titolo di questo post fosse stato "Punta Cournour" non avrei nulla da fare se non esporre i rottami del mio meccanismo da escursionista, danneggiato da una sete di destinazione, di "meta finale" a lungo rimasta a logorarmi nello spirito.
È solo ribattezzando la camminata come Sella del Cournour che riesco a mettere a tacere la Fernweh e dare spazio a ciò che questa camminata mi ha trasmesso.

Ripartire dunque; con lo zaino inevitabilmente più carico del necessario. Attraversare Ghigo di Prali e lasciare l'auto nei pressi dell'area Campeggio lungo le rive del Torrente Germanasca.
Col motore spento si riesce ad udire il fruscìo dei maggiociondoli fioriti nel vento. C'è un silenzio spettacolare.
Si sale lungo il sentiero GTA/204 seguendo le indicazioni per i 13 Laghi. Si abbandonano immediatamente le ultime miande e ci si immerge in un bosco di larici maestosi.
Mentre le conifere si diradano il sentiero si fa gradualmente più ripido e roccioso con un ultimo tiro deciso fino a quota 2199 m circa. A quella quota si scavalca l'ultimo colletto e ci ritrova davanti alla piana dei laghi.
Il pianoro è una piacevole combinazione di prati verdi e bruni, specchi d'acqua dai riflessi d'acciaio, ruderi delle casermette in pietra grigia e diversi nevai.
Il paesaggio è così bello che persino le marmotte paiono in contemplazione, disturbate unicamente dal nostro passaggio.
Oltrepassiamo ciò che rimane dei ricoveri militari Perrucchetti e puntiamo con decisione al punto in cui il sentiero 204 attacca la cresta del Cialancia per poi piegare a destra verso Punta Cournour.
Il sentiero non è facilmente individuabile: sbuca e sparisce di sovente sotto i nevai e confonde i suoi segni di marcatura con quelli degli altri sentieri che percorrono il piano in ogni sua direzione.
Si riesce comunque a trovare l'attacco in prossimità dei Laghi Verdi (2511 m) dove i prati soccombono alle pietraie occasionalmente coperte di neve.
Proprio a causa dell'instabilità delle rocce e all'insidia di alcuni punti innevati e più scivolosi occorre prestare molta attenzione rallentando il passo, ripongo dunque i bastoni da trekking nello zaino e procedo utilizzando talvolta l'appoggio delle mani. Mentre salgo mi imbatto in una primula irsuta, incastonata in una fessura rocciosa, un autentico gioiello naturale, bella da rimanerne incantati per un tempo indefinito.

La Sella del Cournour è proprio a 200 m di dislivello dalla cima. Ci fermiamo un istante in contemplazione e per consumare un pasto veloce, proprio mentre nuvole pesanti si addensano sulla cima decapitandola. Rinunciamo quindi al tratto di percorso mancante, fermandoci alla sella pur non del tutto soddisfatti.  Dopo circa mezz'ora riprendiamo la via dell'andata, sorpresi da una pioggia leggera negli ultimi venti minuti prima di raggiungere l'auto.

Giunti al parcheggio alziamo nuovamente lo sguardo verso le montagne, il desiderio non è ancora del tutto sopito. Qualcosa rode dall'interno, nel profondo ma mi costringo ad ignorarlo.

Non sento il bisogno di valutare il percorso effettuato, nè di consigliarlo o sconsigliarlo. Credo anzi di dover gratitudine a questo trekking per avermi ricordato l'importanza di vivere la montagna non come una lista di mete da raggiungere, non come il conseguimento di un obiettivo (e che quindi diventa un fallimento se non raggiunto) ma come un mezzo per liberarsi dal peso ingombrante della quotidianità sociale e professionale, troppo spesso pregna di assurda competizione.
La persistente staticità domestica stava trasformando la montagna in un ambiente nel quale raggiungere soddisfazione unicamente tramite obiettivi e risultati, un instabile gioco che invade già numerosi ambienti della vita di tutti i giorni: abbiamo sempre scadenze da rispettare, cifre da raggiungere, target da portare a termine... la montagna è qualcosa di diverso, che deve rimanere qualcosa di diverso.
Più ci penso e più sono felice di non aver potuto raggiungere la prefissata Punta Cournour. Sono felice che la montagna mi abbia fermato, ridimensionato, costretto a guardarmi dentro per un breve momento giacchè impossibilitato a guardare lontano a lungo.
Lieto dunque di aver fatto nuovamente tesoro di una lezione dimenticata, ringrazio Francesco per avermi invitato a condividere con lui il cammino.