sabato 17 dicembre 2022

Anello del Ciavanis

Con l'approssimarsi della stagione fredda, prediligo optare per quelle passeggiate semplici che si concludono prima del termine delle scarse ore di luce. Una di queste si è rivelata estremamente piacevole ed è l'anello del Ciavanis.

I percorsi ad anello hanno il pregio di condurre l'escursionista a contemplare un percorso nuovo anche lungo la via del ritorno.
Sarebbe naturalmente possibile ridiscendere percorrendo il sentiero N°326 dell'andata; tuttavia suggerisco anch'io, come molte altre guide online, di ritornare al punto di partenza percorrendo la sterrata sulla destra orografica del Rio della Paglia. Completando un anello in questo modo il tempo della discesa raddoppia ma consente di spaziare più comodamente con lo sguardo sui meravigliosi panorami offerti dall'ampia apertura del vallone che si allunga sopra Valnera e Volpetta in direzione Nord-Est.

Oltrepasso con l'auto il centro abitato di Chialamberto, poi appena superato il Rio Vassola seguo la deviazione a destra verso Candiela e Vonzo.
Lascio la vettura in un piccolo parcheggio proprio alle porte di Vonzo. È possibile proseguire ancora con l'auto e utilizzare l'ampio parcheggio alla fine del centro abitato, nei pressi della chiesa e più vicino all'imbocco del sentiero, ma preferisco percorrere le tortuose stradine tra le abitazioni, rifornendomi d'acqua alla fontana del paese e costeggiando antiche e nuove costruzioni in pietra disposte in una formazione quasi come se volessero proteggersi l'una con l'altra.
Oltrepasso il paese e mi dirigo verso la spianata erbosa alle sue spalle. L'aria fredda, spinta verso il basso dalle montagne, odora di foglie bagnate e mentre mi avvicino alle macchie boscose più in alto sento lo scrosciare dei piccoli corsi d'acqua che si immettono nel Rio della Paglia.

Giunto in prossimità degli alberi dove l'esiguo fogliame autunnale non copre la luce del pallido sole si supera uno di questi piccoli corsi d'acqua tramite un piccolo ponticello in pietra e subito incontro un bivio: il sentiero N°326B a destra passa accanto al Roc d'le Masche, raggiunge Alpe Maleggia e prosegue su strada sterrata verso Madonna del Ciavanis, meta per il pranzo a quota 1880 m, a sinistra il sentiero N°326 prosegue costeggiando le sponde del Rio della Paglia salendo verso il Colle della Paglia (2147 m), Punta Bellavarda (2345m) e naturalmente la già citata Madonna del Ciavanis.
Seguo il N°326 che sale quasi senza alcun tornante ma con pendenza semplice verso la Cappella del Ciavanis, visibile in alto, cambio sponda del torrente a quota 1440 m circa e dopo aver incontrato una fonte d'acqua in prossimità di una struttura e una piega del sentiero a 1500 m circa, la vegetazione si apre per dare spazio ai pascoli di Alpe Paglia. 

Dall'Alpe l'assenza di ostacoli visivi permette di spaziare con lo sguardo tutto attorno, sopra la testa la Madonna del Ciavanis è ben visibile e l'aria fresca la fa apparire più vicina di quanto non sia in realtà.
Più oltre la cresta che unisce il Monte Bellavarda con Rocca Maunero, il Passo del Bojret (2328 m) e Punta Pian Spigo (2540 m). Alle nostre spalle il Monte Pellerin e il Monte Rosso che separano in quest'area la Val Grande dalla Val d'Ala.
Superata l'Alpe della Paglia mi imbatto in una scalinata in pietra che i cartelli indicano come la via da seguire per raggiungere la Cappella del Ciavanis. Mi appresto dunque a salire i gradini con le punte dei bastoncini che risuonano sulle pietre come i freddi rintocchi di un orologio in una sala vuota.

Raggiungo la cappella con un ultimo stretto tornante della scalinata. La struttura è parzialmente coperta da un ponteggio, in compenso l'area antistante è sgombra e mi concedo una leggera pausa per il pasto appoggiato al parapetto del belvedere.
Compio un lento giro intorno alla costruzione ammirando i prati attorno ricchi di cardoni bianchi, dove le zone d'ombra custodiscono un sottile strato di neve, diversi escursionisti e amanti della bicicletta hanno raggiunto questa destinazione e nello spazio attorno alla chiesetta panche e prati accolgono svariati visitatori.

Per ritornare verso Vonzo decido, come accennato in precedenza, di seguire la carrareccia che scende gradualmente verso valle, incrocia il sentiero N°326B, prosegue verso Ciaulera, il Roc d'le Finestre e la particolare Roc d'le Madunie.

Un itinerario estremamente semplice e piacevole per il panorama offerto. Adatto a tutti.

Il Santuario Madonna del Carmine al Ciavanis è raggiungibile dall'abitato di Vonzo, percorrendo la strada privata degli alpeggi o dall'antico sentiero che porta all'inizio della scalinata di 366 scalini terminante nel piazzale antistante la chiesa.
All'incirca a metà del percorso si trova il Roc d'le Masche con la sua leggenda, utilizzata come balma d'alpeggio.
La costruzione di origine settecentesca viene nominata nelle relazioni di visite pastorali in valle nel 1769 e successivamente nel 1843. In una relazione del 1868 viene citata tra le cappelle situate a notte della Parrocchia.
Nel santuario sono conservati molti quadretti di ex voto di antica origine, testimonianza dell'intesa e costante manifestazione di fede nei confronti di questo sito. La festa si svolge tutti gli anni il secondo sabato di Luglio e fino ad alcuni anni fa, come da tradizione, si accendeva un falò a Testa Cianaiun visibile in tutta la valle.









mercoledì 30 novembre 2022

Perla del mese - Novembre

L'alpinismo è un'attività sfiancante.
Uno sale, sale, sale sempre più in alto, e non raggiunge mai la destinazione.
Forse è questo l'aspetto più affascinante.
Si è costantemente alla ricerca di qualcosa che non sarà mai raggiunto.

[Hermann Buhl]



giovedì 10 novembre 2022

Una nuova presidenza e un nuovo direttivo per il G.I.S.M., Gruppo Italiano Scrittori di Montagna

L’Assemblea del Gruppo Italiano Scrittori di Montagna, tenutasi a Feltre il 10 settembre 2022, ha portato grandi novità per il glorioso sodalizio, nato a Torino nel 1929 per opporsi all’inquadramento dell’alpinismo nel C.O.N.I., voluto dal regime fascista. Da allora il G.I.S.M. ha annoverato tra le sue fila alcuni tra i più grandi nomi dell’alpinismo e della cultura alpina italiana.

Nel segno di un ormai necessario rinnovamento, alla presidenza è stato eletto Marco Blatto, che succede a Dante Colli, presidente dal 2016.
Geografo, scrittore, alpinista membro del G.H.M. francese (Groupe de Haute Montagne) e dell’A.C.G. britannico (Alpine Climbing Group), dagli anni novanta Marco Blatto è stato tra i maggiori protagonisti dell’alpinismo esplorativo sulle Alpi Graie Meridionali, autore di decine di nuove prime salite su roccia e su ghiaccio.

Alla Vice presidenza sono stati eletti il Prof. Giovanni di Vecchia (Vicario), il Dott. Giuseppe Mendicino e la Dott.sa Paola Favero.

Consiglieri: il Dott. Marco Dalla Torre, Giacomo Ferramosca, il Prof. Claudio Smiraglia, Fulvio Scotto e Bepi Pellegrinon.

È il nuovo Presidente Marco Blatto a tracciare le linee del futuro del sodalizio:

«Il “nuovo G.I.S.M.” dovrà prendere parte attiva alle sfide etiche dell’alpinismo moderno, a quelle legate al fragile ecosistema alpino e strettamente connesse ai cambiamenti climatici. Questi imporranno sempre di più una trasformazione inevitabile della montagna come paesaggio fisico e come luogo d’azione consapevole. È necessario che questa nostra militanza storica, che ha sempre beneficiato di un’autonomia rispetto ad altre associazioni alpine, sia più incisiva e legittima anche in temi importanti come quello delle “libertà in montagna”.
Accanto all’impegno “ideale”, dovremo dare spazio e voce ai nostri autori, ai nostri pittori, cineasti e fotografi. I tempi che abbiamo di fronte sono difficili, ma abbiamo la determinazione, le competenze e gli strumenti intellettuali necessari per far sì che il G.I.S.M. possa tornare a essere protagonista sulla scena del panorama culturale alpino italiano.
Personalmente, poi, ho un desiderio, che fu anche dell’indimenticabile Presidente Onorario Spiro Dalla Porta Xydias: che il G.I.S.M. possa diventare la “casa” per tutti quegli alpinisti che ritengono che la scalata sia ben più che un fatto sportivo e atletico volto all’affermazione personale.»

lunedì 31 ottobre 2022

Perla del mese - Ottobre

 



Questa foto del 1908 mostra due donne, vestite con una gonna lunga, un cappello e scarpe eleganti, 
mentre si arrampicano su una parete di roccia.
Si tratta di Lucy Smith e Pauline Ranken del "Ladies' Scottish Climbing Club",
un club di arrampicata scozzese per sole donne.
Sono state donne coraggiose come loro a spianare la strada alle famose arrampicatrici di oggi.
Eppure, i loro nomi sono spesso dimenticati.

Per maggiori informazioni selezionare il seguente link

mercoledì 12 ottobre 2022

Crisi energetica, la (dannosa) follia del taglio dei boschi

Articolo a cura di Paola Favero – Mountain Wilderness Italia, socia accademica del G.I.S.M. (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna)

Mai come in questo momento gli alberi ed i boschi sono oggetto di attenzione, propaganda, interesse, spesso assolutamente superficiali e molte volte decisamente discordanti.
La globalizzazione e omologazione che caratterizzano sempre di più la nostra società si è estesa negli anni alle coltivazioni agricole ed oggi anche ai boschi e alle foreste, creando popolamenti coetanei e spesso artificiali, molto più monotoni e fragili di fronte ai parassiti e agli eventi naturali, ma sicuramente più comodi e validi ai fini economici. Si parla sempre più spesso dell’importanza del bosco per la salute del pianeta, dell’influenza che hanno gli alberi per la mitigazione del clima, ed in particolare per ridurre la temperatura nelle città, e ancora di più del loro prezioso contributo per l’assorbimento della CO2 e la produzione di ossigeno. E contemporaneamente si vogliono tagliare gli alberi nei centri abitati perché danno fastidio, sporcano o sono pericolosi, e si decide di incentivare le centrali a biomassa legnosa che hanno un rendimento davvero basso ed emettono nell’atmosfera CO2, bruciando organismi che erano invece capaci di assorbirla e immagazzinarla nel loro legno.

Allo stesso modo si inneggia alla biodiversità e si sottolinea come sia fondamentale mantenerla e preservarla, ricordando che oggi siamo in una fase che viene chiamata la sesta estinzione poiché le specie viventi si stanno estinguendo alla stessa velocità che ha caratterizzato in tempi geologici le  “big five”, le 5 grandi estinzioni di massa, (una delle più famose quella che nel Terziario ha visto la scomparsa dei dinosauri). Si ricorda come la biodiversità sia alla base della vita stessa e della vita come oggi la conosciamo, si portano dati precisi che mostrano come l’uomo l’abbia già ridotta di circa il 50% e si spiega che l’80% di quella che resta è conservata nei boschi e nelle foreste, soprattutto quelle vergini o vetuste, che sono più evolute, complesse, ricche e resilienti. Ma poi, in altri contesti, si spiega che i boschi vanno gestiti e tagliati per garantirne una maggior stabilità, si sostiene che è bene ringiovanire i popolamenti forestali per renderli più resistenti alle tempeste di vento, e in nome di maggiori rendimenti e di una presunta economicità si preferiscono interventi generalizzati, effettuati con mezzi meccanici invasivi che possono operare solo con dei tagli raso, non certo con tagli a scelta a carico dei singoli alberi. Troppe volte ormai gli alberi sono visti solo come una merce uguale a molte altre e, nell’ultimo periodo, addirittura come una parziale soluzione ai problemi energetici che ci colpiscono. Nel corso degli ultimi decenni l’albero, prima considerato un individuo con proprie caratteristiche e peculiarità, utile a svariati fini ma sempre scelto e valutato con cura ed attenzione, così che c’era quello adatto a fare mobili e quello ottimo come trave, quello speciale per le sculture e quello per sedie o rastrelli, è diventato merce legno più o meno tutta uguale all’interno di processi di esbosco e lavorazione sempre più meccanizzati ed uniformati. Il taglio saltuario per piede d’albero, o taglio cadorino, fiore all’occhiello della selvicoltura naturalistica italiana, che l’ha ereditato dalla splendida Repubblica di Venezia, oltre che garantire la produzione del bosco ne salvaguardava la capacità ecosistemica, gli habitat presenti al suo interno, la sua varietà e resilienza, la biodiversità, imitando la natura stessa che solo in caso di eventi eccezionali, come tempeste di vento o valanghe, apre grandi radure all’interno della foresta; oggi si va sostituendo un taglio adatto ai nuovi mezzi meccanici sempre più efficienti e veloci, che aprono superfici a raso e non guardano certo ai singoli alberi.

Peccato che in tutti i manuali di ecologia e selvicoltura abbiamo da sempre studiato che i boschi migliori sono quelli misti, disetanei e dove l’eventuale utilizzazione deve seguire l’esempio della natura prelevando una pianta là e una qua, senza disturbare la struttura forestale e senza alterare gli habitat presenti. Abbiamo anche imparato che sono proprio gli alberi più vecchi e più alti a dare la dimensione dell’ecosistema foresta, creando uno spazio di biodiversità che qualora vengano tagliati ringiovanendo il bosco si riduce drasticamente. Quante nicchie ecologiche si perdono dimezzando l’altezza di un popolamento? Così, mentre da un lato si riconosce l’importanza dei boschi vetusti e delle piante vecchie, anche quelle morte in piedi, arrivando a dare finanziamenti per creare le “isole di senescenza”, cioè tratti di bosco artificialmente invecchiati anzitempo in luoghi dove i popolamenti forestali sono stati troppo manomessi e alterati, dall’altro si continua ad inneggiare al taglio e alla gestione attiva, che portano inevitabilmente alla semplificazione e alla perdita della biodiversità.

Ma non solo. Questo tipo di approccio produttivistico, che era stato di gran voga negli anni del dopoguerra, ed era stato poi superato dalla più moderna selvicoltura naturalistica, è alla base dell’attuale fragilità dei nostri popolamenti forestali, poiché strutture monospecifiche e coetanee sono molto più sensibili a tempeste di vento e nevicate pesanti, e soprattutto ad attacchi parassitari come quello che bostrico (Ips tipographus), che sta decimando gli abeti rossi in tutto l’arco alpino e più in generale in tutta Europa. Questa specie, che per la velocità di crescita ed il legno ottimo per infissi, pavimenti, mobili, ecc… è stata ovunque favorita e spesso anche piantata, rappresenta oggi l’essenza forestale di gran lunga più diffusa, e costituisce spesso popolamenti monospecifici che sono ideali per lo scoppio di vere e proprie infestazioni parassitarie. Gli insetti sono infatti quasi sempre specifici, così che per esempio il bostrico colpisce l’abete rosso e la coleophora laricella il larice, e quando uno di questi insetti trova le condizioni favorevoli per riprodursi in modo eccezionale, in seguito a disequilibri che provocano sofferenza nella pianta ospite, improvvisamente incapace di respingere i loro attacchi, la presenza di ettari ed ettari coperti prevalentemente dalla specie prediletta moltiplica il potenziale riproduttivo del parassita, che diventa un vero e proprio flagello. Cosa che invece non si verifica nei boschi polispecifici, dove vedremo morire gli abeti rossi ma dove il popolamento continuerà a vivere grazie a tutte le altre diverse specie che lo compongono: faggi, abeti bianchi, larici, aceri, sorbi, ecc… Lo stesso fenomeno possiamo vederlo nelle pinete delle zone pedemontane che sono tutte colpite dalla processionaria: ma siamo stati noi a piantare quei popolamenti artificiali tutti della stessa specie, il pino nero, e della stessa età, creando le condizioni ideali per l’esplosione del parassita.

Mentre in passato queste infestazioni avvenivano solo occasionalmente in seguito a qualche annata particolarmente siccitosa, o a piccole aree di schianti che si verificavano in seguito a venti violenti ma localizzati, oggi con la crisi climatica vediamo tempeste di vento sempre più forti, estese e frequenti, come è stata la tempesta Vaia, che creano una massa enorme di legno deperiente e sofferente, ideale per essere attaccato dai parassiti. Ma non basta, l’abete rosso viene attaccato anche dove non si verificano questi eventi estremi a causa dello stato di stress in cui si trova per il riscaldamento globale. Due gradi in più di temperatura per un organismo che non può spostarsi o difendersi significa una situazione di debolezza e malessere che insetti, funghi, batteri percepiscono immediatamente, così che arrivano in massa per approfittare della situazione innescando la distruzione di migliaia di piante.

Non dobbiamo poi dimenticarci che l’aspetto che più mette in crisi gli alberi ed i boschi è la velocità con cui avvengono questi cambiamenti: in passato, per esempio quando le Alpi sono state interessate dall’ultima glaciazione, questa è avvenuta in tempi molto più lenti, che hanno dato modo alle piante di spostarsi in zone non ancora coperte dai ghiacci, riuscendo così a salvarsi e a ripopolare successivamente gli antichi territori. E’ il caso del pino cembro, che dalla Siberia è arrivato a colonizzare le alpi meridionali e quando i ghiacci si sono ritirati è rimasto nelle zone più fredde rivolte a settentrione. Ma l’attuale crisi climatica, proprio perché provocata dall’uomo, è caratterizzata da velocità eccezionali che non permettono ad organismi come le piante di adattarsi o di spostarsi in tempo.

Per questo è importante oggi preservare in ogni modo e con ogni mezzo i boschi presenti, che non dobbiamo valutare solo per quel piccolo rendimento economico datoci dal legname da opera o dalla legna utilizzata per produrre energia, ma per tutti i servizi ecosistemici che ci forniscono, che hanno un valore ben più alto ma difficilmente monetizzabile. Utilizzare il legno per produrre energia è lo spreco più grande che si possa fare, ed è lecito solo quando si tratta di scarti di segheria, che in altro caso sarebbero buttati. Ma tagliare alberi per poi bruciarli è oggi davvero una follia, poiché si taglia un organismo capace di assorbire CO2 per ottenere energia con un processo di combustione che invece ne produce e che immette nell’aria anche polveri sottili estremamente nocive. Il legno non è una forma di energia rinnovabile nei tempi necessari, poiché occorrono decenni per far crescere un albero. Certo non si vuole con questo negare che nei piccoli borghi di montagna bruciare la legna per scaldarsi può essere ancora sostenibile, purché siano eliminati caminetti o stufe di vecchia concezione per utilizzare invece apparecchi efficienti che consumano poca legna e non producono inquinanti. Bisogna inoltre che i tagli siano fatti con oculatezza senza rovinare o indebolire la struttura forestale, in punta di piedi insomma, come si faceva un tempo.

Leggere in questi giorni slogan come “contro il caro bollette usiamo la motosega” o simili ci mostra ancora una volta la cecità in cui siamo immersi, e la malafede di chi sostiene queste cose solo per interessi ben diversi, legati agli incentivi o al tornaconto immediato, ma incapaci di vedere oltre, a quello che è il nostro futuro. Tornando ai servizi ecosistemici delle piante possiamo comprendere che solo la loro funzione di assorbimento della CO2 basterebbe a spingerci a salvaguardarli in ogni modo. Ma se a questo si aggiunge la mitigazione del clima, la produzione di suolo, la conservazione e la regimazione dell’acqua, la difesa idrogeologica, la funzione sanitaria, e turistico ricreativa, e più importante di tutte, la salvaguardia della biodiversità, possiamo comprendere che il vero tesoro sta proprio negli alberi e nei boschi in piedi, vivi, ricchi e biodiversi, e non nel legno che ne possiamo ricavare, soprattutto quando lo bruciamo.

Ecco quindi che gli slogan che sentiamo sempre più spesso, “piantiamo alberi” da un lato e “tagliamo boschi” dall’altro, suonano sempre più assurdi e falsi. È certo importante piantare alberi soprattutto nelle città e nelle aree urbane, ma ancora più importante è conservare i boschi, perché questi non sono solo insiemi di alberi ma rappresentano un vero e proprio ecosistema, un mondo di biodiversità su cui, non dimentichiamolo, si regge tutta la vita del pianeta, e che una volta persa non è riproducibile neppure grazie alle tecnologie più raffinate.

Sarà sulla capacità di tutelarla che si giocherà il nostro futuro.


Paola Favero

venerdì 30 settembre 2022

Perla del mese - Settembre

La montagna non è solo nevi e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli.
La montagna è un modo di vivere la vita.



giovedì 22 settembre 2022

I tesori di Belluno e Feltre

L'area Pedemontana bellunese, essendo non solo a ridosso delle Dolomiti, ma comprendendo nella zona più meridionale, ed in particolar modo buona parte del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi, offre ai visitatori gradevoli e caratteristici scorci delle valli montane che si prestano non solo ad un turismo di tipo familiare, con piacevole rilassanti passeggiate senza la pretesa dell'alta quota, ma anche agli amanti della natura, della fotografia e agli escursionisti più sportivi ed audaci con itinerari di trekking a piedi, in mountain bike e a cavallo, vie ferrate o attrezzate per arrampicate alpine.

Anche la stagione invernale trova il terreno pronto a nuove attività.
Sono infatti presenti impianti di risalita con innevamento programmato almeno in tre località: Alpago Belluno e Feltre, tutti con piste impegnative, medie e facili, piste di slittino per bambini e percorsi per sci di fondo.
Ma dove c'è montagna non possono mancare torrenti e laghi e la Val Belluna ne è particolarmente fornita; questo fornisce possibilità di praticare altri sport come pesca, windsurf, rafting e molto altro.

Non solo la natura contribuisce a rendere interessante ed originale la zona, anche la cultura e la storia non sono passate senza lasciare tracce come ad esempio l'Antica Via Augusta Altinate, della quale si possono ancora scorgere occasionalmente tratti e pietre miliari, oppure il castello di Zumelle presso Mel e quello di Alboino a Feltre, fino ai centri stessi delle città di Belluno e Feltre che portano evidenti segni del loro passato, sia complessivamente per la caratteristica disposizione degli insediamenti, sia all'occhio più attento, per i particolari architettonici e decorativi che ostentano l'appartenenza all'Impero Romano prima ed alla Repubblica di Venezia poi.


Anche la fede religiosa si concretizza nella realizzazione di opere monumentali che oggi sono meta non solo di fedeli ma anche di turisti che apprezzino l'arte o la spiritualità nel passato.
In posti caratteristici sono stati costruiti monasteri o santuari come ad esempio la Certosa di Vedana oppure il santuario dei SS Vittore e Corona, arroccato su un colle a 4 km da Feltre, che conserva Preziosi affreschi del XIV secolo e che tuttora offre ospitalità per convegni o persone desiderose di una vacanza di relax e meditazione.

Focalizzandosi in particolare sulla città di Feltre possiamo notare come questa ostenti maggiormente le sue ascendenze storiche, proponendo al visitatore la cerchia di mura che corre ai piedi del Colle delle Capre dove i tetti delle costruzioni più antiche gareggiano verso la sommità dove si erge il castello di Alboino.
La sua posizione strategica, all'imbocco della vallata provenendo da Padova o Vicenza, è stata per molto tempo contesa prima da Alani, Longobardi e Franchi e poi, nel secondo millennio, da varie casate come ad esempio quella di Carinzia e Boemia, fino a donarsi nel 1404 alla Repubblica di Venezia.

Con queste poche righe desidero suggerire al potenziale visitatore di contemplare una visita a Feltre alla ricerca del proprio itinerario preferito, personalizzato in base al proprio gusto e alle proprie capacità.



















Per maggiori informazioni raccomando la consultazione dei seguenti volumi:






mercoledì 31 agosto 2022

Perla del mese - Agosto

Ma è quando arriviamo in cima alla chiesetta che mi si mozza il fiato, un panorama diviso in due; da una parte le case e il centro di Cicero, dall'altra un mare verde, un orizzonte immenso e due montagne imponenti che spiccano in mezzo a tutto quel verde.

[Chiara Bargetto]


sabato 20 agosto 2022

Coturnice

La coturnice (Alectoris graeca) appartiene alla Famiglia dei Fasianidi, predilige versanti soleggiati e ripidi con vegetazione erbacea ed affioramenti rocciosi.
In inverno, in concomitanza con la presenza di neve al suolo, si abbassa sulle balze rocciose dei fondovalle.
Fino al secolo scorso la pastorizia e l'agricoltura avevano creato un ambiente artificiale assai favorevole. È specie monogama e territoriale in cui le coppie nel mese di Aprile occupano territori di poche decine di ettari. Il maschio in questo periodo emette il caratteristico canto alle prime luci dell'alba e alla sera.
La femmina depone 8-14 uova nel nido costruito a terra al riparo di ciuffi d'erba o piccoli arbusti.
La cova dura 24-26 giorni ed alla schiusa i pulcini sono già in grado di seguire la chioccia alla ricerca di cibo e dopo una ventina di giorni compiono i primi voli.
Anche nel periodo autunnale il canto riveste un importante ruolo in quanto viene utilizzato per ricomporre la brigata. La dinamica delle popolazioni è influenzata dalle condizioni meteorologiche del periodo invernale e di quello immediatamente successivo alla schiusa. La specie è oggetto di censimenti primaverili "al canto" ed estivi con cani da ferma.


martedì 12 luglio 2022

Lac Bleu

La ripresa delle mie attività in montagna è più lenta del previsto, rare sono le occasioni di poter calzare gli scarponcini, metter sulle spalle lo zaino e salire lungo uno degli itinerari in lista, così come rare sono le opportunità di dedicare il tempo che vorrei alla scrittura sul Blog.
Così devo cogliere ogni occasione propizia anche se queste mi portano su sentieri che non avevo in programma.
Il Lac Bleu è una di queste occasioni: con l'obiettivo di ispezionare il luogo attorno allo specchio d'acqua per una potenziale Uscita Scout decido di salire partendo dall'area attrezzata per i camper dopo il centro abitato di Chianale.
Lascio quindi l'auto a circa 1810 m di quota e prendo a salire per ciò che resta del tratto asfaltato che conduce all'Agriturismo Lou Chirun, raggiungo il piazzale prima del salto d'acqua che scende da Grange Pian Vasserot, e prendo il sentiero U21 a sinistra che comincia con lieve pendenza ad inoltrarsi tra gli alberi.

Si può godere dell'ombra del bosco fino a quota 2081 m circa, poi la vegetazione inizia a diradarsi gradualmente fino a lasciare l'escursionista sotto l'implacabile forza dei raggi solari per la rimanente parte del tragitto.

Come se avvertisse l'energia dell'astro e volesse schivare la luce del sole il sentiero nel primo tratto esposto sembra un serpente agitato, saettando a destra e sinistra in modo caotico, seguendo Costa Buscet, una parete del Tour Real (2877 m di altezza). Dall'altra parte si ha una splendida visuale del Vallone di Saint Veran e della sua cima più affascinante: Rocca Bianca (3063 m di altezza) dall'aspetto maestoso, degno delle migliori illustrazioni dei romanzi fantasy.

Superate Grange Antolina ci si trova davanti alle magnifiche Cascate del Rio Antolina, poi il sentiero piega bruscamente a sinistra come per evitarle risalendo su un costone dove, con un paio di tornanti, si immette in un'apertura del piano sopra di noi, non lontano dal salto delle cascate. Dopo il sentiero cambia pendenza diventando più agevole e coprendo gli ultimi 550 m che ci separano dal colletto di contenimento del Lago Bleu.





Alimentato dai torrenti che scendono dal Vallone del Lupo, dal Vallone Pienasea e dai corsi d'acqua che abbandonano i laghi soprastanti nei pressi del Col de Longet (2660 m) il lago si presenta come un ceruleo specchio d'acqua di forma quasi regolare, lungo circa 219 m e largo circa 156 m, anche se il perdurare del clima secco ne ha ridotto lievemente le dimensioni.

I riflessi del cielo sulla sua superficie, facilmente ammirabili dalle sponde calme, occasionalmente increspate dal guizzo di un pesce, invitano a sostare per la pausa pranzo. 
Sulla via del ritorno scruto con interesse il sentiero che conduce al vicino Lago Nero, ma decido di tenere tale meta per un'altra occasione e riprendo quindi il sentiero della discesa.




Ringrazio Marina, Alessio e i loro amici per la compagnia sulle sponde del lago e raccomando calorosamente una visita alla Chiesa di Maria Vergine Assunta a Venasca, sulla via del ritorno.




Chiesa monumentale, definita "Una tra le più superbamente belle chiese del Piemonte", è uno dei più significativi esempi di architettura barocca del Saluzzese.
Dedicata a Maria Vergine Assunta, è a pianta ottagonale e la facciata, tutta in mattoni a vista, s'innalza su un piano rialzato limitato da una balaustra in pietra; il grande portale si apre fra due grandiose colonne in cotto affiancate da un succedersi di alte paraste. A destra del presbiterio s'innalza il campanile, sormontato dalla cuspide barocca, coperta da lastre metalliche, portante il globo e la croce.

All'interno, agli angoli dell'ottagono, si levano colonne corinzie, in corrispondenza della quali, in alto, sono collocate grandi statue in stucco che rappresentano i Dottori della Chiesa. Presenta un'ampia navata maggiore e 6 cappelle laterali che coronano nella grande abside, dove spicca la decorazione pittorica dell'Assunta, opera del milanese Pietro Antonio Pozzi. Un maestoso arco di trionfo immette nel presbiterio: sull'arcata vi è lo stemma di Venasca con una grande "V" sopra la divisa bianco-azzurra del marchesato di Saluzzo.
Nelle cappelle di destra sono collocate tre pale che rappresentano, in ordine, l'Annunciazione dell'Arcangelo Gabriele alla Vergine, la Madonna della cintura e le anime del Purgatorio, Santa Lucia con la Madonna del Carmine; in quelle di sinistra sono raffigurati: il trapasso di San Giuseppe, la Madonna del Rosario con Santa Caterina e San Domenico, opera del pittore Netu Borgna, il Sacro Cuore apparso a S. Margherita.
Il presbiterio è delimitato da una balaustra in marmi variegati; l'altare maggiore, marmoreo e di stile neoclassico, è coperto da una volta a conca con base ellittica.
All'ingresso, sopra il vestibolo, vi sono la tribuna e le canne dell'organo.
La grandiosa opera venne iniziata il 24 Maggio 1750, quando Mons. Filippo Porporato, vescovo di Saluzzo, pose la prima pietra e la costruzione seguì il progetto dell'architetto Paolo Ottavio Ruffino di Cavallermaggiore. Del precedente edificio romanico-gotico abbattuto rimane un architrave in pietra scolpita che riporta la data 1468, attualmente murato di fianco alla porta d'ingresso di sinistra. Il 17 Luglio 1788 Mons. Gioacchino Lovera consacra solennemente la parrocchiale. Il 14 Settembre 1909 il Ministero della Pubblica Istruzione attesta che questa chiesa "È edificio pregevole di arte per l'eleganza e la purezza delle linee di perfetto barocco piemontese" e la dichiara Monumento Nazionale.
Importanti restauri vengono compiuti negli anni 1935-'37 sotto la guida del parroco Don Andrea Allemano e, di recente, sono state effettuate significative opere di risistemazione dei dipinti per iniziativa di Don Roberto Salomone, parroco di Venasca.