Tratto da Lepontica di Paolo Crosa Lenz (N°16 di febbraio 2022)
Il castagno (Castanea sativa nella lingua delle scienze) è sempre stato un albero prezioso per la civiltà contadina di montagna. Non vi parlo dell’arbul, il castagno da frutto innestato, l’italico albero del pane, ma del castagno selvatico, che cresce spontaneamente dai 300 agli 800 m di quota, spesso dominante con ampie ceppaie nel bosco misto di latifoglie.
Il suo nome in dialetto è salvagh o salvadigh, “selvatico” per eccellenza.
Come certi uomini.
Anche il selvatico dà frutti, ma non sono quelli grossi ad uso alimentare, sono castagne piccole che si davano ai maiali (ingrassavano con meno grasso e più carne). Il valore economico e sociale del castagno era il suo legno, sia da opera che da ardere.
Se, nelle alte valli di montagna, le travature dei tetti erano fatte con tronchi di larice, nelle basse valli erano in tronchi di castagno.
Due modi differenti di utilizzo delle risorse della montagna. Ci sono tetti di cinquecento anni con le travature di castagno: è duro come il ferro e se provi a tagliarlo mangi la catena della motosega.
Cede solo quando nei tetti di piode penetra l’acqua che piano lo indebolisce, ma ci vogliono anni.
I denti dei rastrelli (merita un canto questa macchina meravigliosa del mondo contadino!) erano fatti di castagno, resistente ad ogni asperità (oggi sono di plastica).
Il legno di castagno ha un buon valore calorico: mille inverni sono stati superati bruciando castagno.
Albero paziente, richiede pazienza dagli uomini. Lo tagli, devi spaccarlo in verticale, lasciarlo almeno un inverno sotto l’acqua che toglie il tannino (altrimenti nel camino diventa nero, puzza, non brucia e non scalda), poi lo tieni all’asciutto per un anno o due.
Per me il castagno rappresenta le tante piccole o grandi cose buone della vita; da inseguire a lungo e con pazienza.
Quando metto nel camino un legno di castagno, sono contento.
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