Un’accidentale caduta l’ottobre scorso su una parete invasa dalle spine e percorsa in solitaria mi era costata un mese di forzata inattività. A questa è seguita una polmonite virale che mi ha bloccato del tutto da fine anno all’altro ieri. Con la schiena dolorante per vecchie fratture alle vertebre dorsali e gli antibiotici ingeriti in dosi massicce, a 71 anni, tutto sembrava davvero finito. I medici decidono di ricorrere agli antidepressivi, ultimo scalino per affossarmi del tutto, ma necessari se non c’è più in me la voglia di reagire. Ed è proprio quando si sta toccando inesorabilmente il fondo che una forza inspiegata, magari irrazionale, scatta dentro di me e mi fa inaspettatamente rispondere a uno stimolo, riattivare un impulso sopito nei cassetti della memoria.
Vivendo solo e da tempo in disarmonia con me stesso, vado in cantina e mi capita in mano la piccozza che usavo abitualmente per le salite su ghiaccio dei tempi che furono. È mattino inoltrato. Trovandomi in mano un attrezzo amico scatta in me una strana molla e il desiderio di poter ancora comunicare le mie sensazioni innesta la spina del tutto. Devo uscire per tornare a vivere, cercare un salto ghiacciato anche solo da guardare per togliermi di dosso l’apatia che mi sta annientando. Non importa se non ho in testa una meta precisa, l’importante ora è sconfiggere la prigione che mi sono creato per due circostanze avverse di salute non dipendenti dalla mia volontà. Recupero il resto del materiale: seconda piccozza da ghiaccio, ramponi, una corda, casco, imbragatura, borsa con gli scarponi. Indosso l’equipaggiamento invernale e trovo finalmente la forza di liberarmi dal peso più insopportabile: “L’inedia”. Già il fatto di uscire da casa (il sintagma "da casa" è un complemento da moto a luogo...) senza una meta programmata o un amico che mi attende, fa vibrare il mio cuore di nuove emozioni da tempo lasciate nell’albo dei ricordi.
Ogni zona della valle in cui vivo è stata da me attentamente esplorata, ogni magia svelata, ogni posto catalogato. Ma il gelo oltre misura di questi giorni in concomitanza alla mancanza di neve della mia regione, plasma figure inesistenti, te le crea sul momento, produce uno spazio anomalo, ti colloca un punto immaginario su cui salire.
È il famoso urlo pietrificato del ruscello più nascosto che incontra un salto nel vuoto anche di pochi metri e cade a valle inosservato. Ebbene in quel punto, in questi magici momenti, solo per pochi istanti, anche in bassa montagna, la cascata costruisce la sua figura di ghiaccio. La caduta d’acqua bloccata dal gelo, come una bellissima donna che non si lascerebbe mai avvicinare dal primo venuto, si paralizza, trasformandosi in un immobile arabesco glaciale che non può respingerti né bloccarti. È materia effimera. Gelo purificato dall’ineluttabile caduta dell’acqua che si è arrestata come se una bacchetta magica avesse fermato il tempo, lo scandire delle ore, la motilità di ogni forma di vita. In quell’attimo riprendo coscienza del mio corpo, mi sento padrone di quel piccolo universo che si è arrestato ai miei piedi. Calzo in silenzio i ramponi, mi avvicino sotto il salto cristallizzato e lo guardo con riverito timore. Sono solo. Unico impercettibile rumore che penetra in quell’assoluto silenzio è il battito concitato del mio cuore. Ripenso in questa cercata solitudine e voglia di reagire ad ogni costo, magari in maniera del tutto irrazionale per la gente comune, a un grande amico ed alpinista tradito da uno di questi salti ghiacciati (Giancarlo Grassi) che mi aveva fatto ben capire come la cascata di ghiaccio rappresenti l’ultima isola di libertà, perché rimane sempre un universo misterioso che si scioglie come neve al sole, scomparendo con la stessa magia di come si è formata senza offrire lo spazio al filtro della regolamentazione e alle volontà pianificatrici del vivere comune. Salito il salto ghiacciato senza nome ne cerco altri, vagando in questo spazio, assorto nei miei pensieri tristi, verso un punto indefinito della valle, per ricordare tutte le persone care e i miei tre adorati cagnolini che mi hanno preceduto nei pascoli celesti, perché se un paradiso esiste, deve esserci anche per i nostri adorati “senza voce”. Calco una zona di per sé poco nota ai locali e agli escursionisti perché non conduce a mete prestigiose, a cime importanti, tanto meno in inverno. È un punto della valle nel quale si avverte però un’atmosfera strana, a cavallo tra la Val di Susa e la Val Sangone. La poca neve gelata caduta sinora mi permette di calzare i ramponi che stridono sulle pietre emergenti in un paesaggio contrastante tra il bianco del manto gelato e i colori ancora autunnali causati da questo anomalo inverno. Questo luogo è situato in un punto non ben identificato sulle cartine e desidero rimanga tale, perché ci sono finito per caso, salendo senza consultare una guida per scalare una determinata cascata, ma solo per sentirmi ancora più isolato, assorto dai tristi pensieri che da tempo flagellano la mia mente, quasi guidato da una mano sconosciuta alla ricerca di chi non c’è più o dell’istinto che ti fa andare senza una meta precisa, dove ti porta il cuore.
Volgendo lo sguardo verso la mia amata valle mi appare a sinistra di un piccolo colatoio un altro salto ghiacciato di una ventina di metri che non ho mai visto prima, formato di sicuro dal gelo di questo strano inverno. Salgo questa seconda anomala cascatella senza nome, mi fotografo con l’autoscatto, quando mi sembra di scorgere a lato di una malga abbandonata un’ombra furtiva. Dimentico di fare quindi una relazione tecnica ai due salti trovati per caso e che forse mai più si formeranno e magari tecnicamente di nessuna importanza, ma di andare oltre la meta a curiosare nel vecchio capanno stroncato dalla neve e dal ghiaccio, con il soffitto crollato. Qui il mio occhio cade su una vecchia foto intrappolata nel ghiaccio. Sembra posta su una mano e tenuta pizzicata perché io la scorgessi. Un brivido mi coglie in tutto il corpo.
Riconosco quella foto sgualcita dal tempo. Come è finita qui mi chiedo?
Infatti era un’anziana donna di Richiaglio, un paese situato nella valle di Viù, poco oltre il Colle del Lys, in una valle isolata, fuori dalle strade abituali di collegamento, che tanto aveva fatto parlare i giornali di quindici anni fa per l’aiuto portato dai “media” a questa gente che vive tuttora isolata, forse con maggiori conforti di allora, ma con lo stesso senso di pudore e di desiderio di rimanere nel loro angolino isolato fuori dal mondo. Se mi fossi addentrato oltre o avessi portato via quell’immagine avrei violato un mistero che non mi apparteneva. Il villaggio ricordato è molto lontano da qui, in tutt’altra vallata. Forse “Qualcuno” di cui non ho avvertito la presenza ha voluto significarmi che non devo sentirmi solo perché accanto a noi, come in questa stranissima circostanza narrata, si possono rivedere con gli occhi dello spirito, se sei nella giusta recettività, le persone e animali che hai amato e aiutato e che possono tornare a te in modi diversi e con diverse simbologie alle quali siamo noi, se attenti, a dover dare il giusto significato. Non vado oltre, ma torno a casa con la voglia però importante, ora di tornare a vivere!
Nessun commento:
Posta un commento